Possiamo capire meglio quanto è successo a Forlì il 10 dicembre 1944 se riusciamo a comprendere cos’è la guerra in sé e quali sono le sue manifestazioni e conseguenze sulle famiglie e sulle persone: rottura di ogni equilibrio, spaesamento, ansia e timore per sé e i propri cari, convivenza forzata con una realtà di violenza.
A Forlì gravi fatti di guerra hanno funestato, con bombardamenti, uccisioni e stragi, la popolazione della città e delle campagne, in uno stato di grave disordine che è durato tra 1943 e 1944. Per fortuna la popolazione forlivese dopo la bufera ha saputo risollevarsi. Numerosi giovani e giovanissimi in particolare hanno potuto trovare in San Biagio e nell’Oratorio San Luigi, dopo il “vuoto” doloroso e angosciante della guerra vissuta, il “pieno” di una nuova vita attiva, comunitaria e religiosa, pur ancora in un contesto di povertà. Si situa qui l’esperienza, ecclesiale, storica e umana, dell’Opera Salesiana a Forlì: una città che ha espresso fin dall’età di don Bosco ancora vivente – fine Ottocento – una vera “vocazione” salesiana.
Domenico Svampa, grande vescovo (diverrà cardinale a Bologna) che aveva conosciuto di persona don Bosco aveva, come vescovo di Forlì, già lasciato crescere semi salesiani nelle grandi anime di don Tommaso Morgagni e don Giuseppe Prati (don Pippo) tra gli oratori dei Cappuccinini, di San Biagio, con don Secondo Mordenti, e di San Luigi, con, appunto, don Pippo Prati. Così quando nel 1941 l’allora vescovo di Forlì monsignor Giuseppe Rolla supplicherà l’arrivo dei salesiani a Forlì, verrà presto accontentato dal superior maggiore Pietro Ricaldone. Don Bosco era divenuto santo da pochi anni, nel 1934, e la famiglia salesiana era in espansione in Italia e nel mondo con la figura/simbolo del suo fondatore, modello di santo “sociale” e “dei giovani”. Così, nell’ottobre 1942, i primi salesiani giunsero a Forlì unificando pastoralmente la parrocchia di San Biagio e l’oratorio interparrocchiale di San Luigi: 1.500 persone, in un quartiere popolare, in un momento in cui la guerra stava ormai volgendo al peggio per l’Italia. In tale situazione i vertici della Chiesa già prevedevano un prossimo cambio di regime. Pio XII scrive in questo periodo discorsi per la pace e per un futuro di vita democratica. E non è un caso che il nuovo parroco don Pietro Garbin, 35 anni, già professore di Liceo, parlerà dei messaggi di Pio XII alle operaie del calzaturificio Trento, dei Fratelli Battistini, sito in parrocchia, in via Paradiso. Con don Garbin ci saranno il più anziano don Agostino Desirello, catechista e confessore, don Leo Coppo, cultore di musica nato e cresciuto a New York, il direttore dell’oratorio don Marco Perego, 29 anni con una giovanile esperienza operaia, e due coadiutori laici. All’inizio del loro impegno forlivese nessuno di essi sa che li sta attendendo un futuro prossimo doloroso. Il 5 marzo 1943 la neo comunità salesiana riceverà, a consacrarne la nascita, la visita da Torino del superior maggiore don Ricaldone.
Un solo giorno dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 inizia a Forlì l’occupazione tedesca. L’8 marzo 1944 cade la prima bomba, ma poi i bombardamenti degli alleati si susseguono: vi saranno diversi morti tra i parrocchiani in quello del 19 maggio, annotati nel diario da don Garbin, e ancora il 5 giugno. Gli allarmi aerei si susseguono: il 29 giugno, dopo 12 allarmi nella giornata, ben 33 nuclei familiari, un centinaio di persone, scelgono gli spazi parrocchiali di San Biagio come un rifugio sicuro. E’ iniziato il fenomeno dello sfollamento, cui si unisce quello dei profughi e rifugiati, sfollati a più ampio raggio, anche dalla Toscana, che verranno accolti non solo in San Biagio, ma anche presso le suore del Buon Pastore in via dei Mille, e quelle dell’Asilo Santarelli in via Emilio Dandolo. Vi sarà necessità di pasti, indumenti, letti e spazi vivibili: a tutto si provvederà, quasi miracolosamente. Nonostante questi ricoveri di massa, bisogna ricordare come la città nel corso del 1944 dimezzerà la sua popolazione per i molti sfollamenti in località di campagna, meno soggette ai bombardamenti. Penosa e diversa sorte, rispetto agli sfollati, sarà quella dei rastrellati dai tedeschi per sospetto appoggio ai partigiani. Centocinquanta di questi rastrellati verranno raccolti dai tedeschi presso il convento delle Dorotee in via dei Mille, in attesa di smistamento in varie carceri: anche a questi non mancherà il conforto spirituale e il sostegno materiale dei salesiani.
Il 18 agosto avverrà lo scempio dei 4 partigiani impiccati dalle brigate nere ai lampioni di Piazza Saffi. Uno di questi, Adriano Casadei, è figlio di una parrocchiana in contatto con don Garbin, il quale non mancherà di fornire aiuti a chi ha disertato dalla leva repubblichina ed è riparato in montagna. Con alcuni giovanissimi oratoriani don Marco si recherà in Piazza Saffi per una benedizione agli impiccati, guadagnandosi lo scherno dei brigatisti neri di guardia alla macabra scena, una scena che avrebbe dovuto servire d’insegnamento ai forlivesi. Il 25 agosto avviene il più grave bombardamento, il settantesimo, che colpisce il centro della città, causa molti morti e danneggia il monumento ad Aurelio Saffi e San Mercuriale. Tra il 5 e il 25 settembre avvengono tre stragi per fucilazione all’aeroporto di Forlì, in particolare di ebrei in precedenza imprigionati all’Albergo Commercio, con destinazione finale Auschwitz. Ma il fronte ormai si avvicina: lo sfondamento della Linea Gotica è avvenuto e Rimini liberata. Auschwitz è troppo lontana da Forlì: così la “soluzione finale” per quei 19 ebrei è anticipata nella nostra città. In questo terribile periodo, come abbiamo potuto appurare tra 2019 e 2020, don Garbin in gran segreto ospitò in San Biagio e al Buon Pastore, anche una famiglia di ebrei in fuga da Vienna, i Laufer: Oscar, Clara e l’allora piccolo Bruno, che ci rivelò tutta la storia. Una storia esemplare, ove la mamma Clara – con grande rischio personale e in accordo con don Garbin – potè assolvere a un ruolo d’intermediazione, quale interprete, col comandante tedesco a favore degli sfollati, vicini alla morte per fame.
Dal 25 0ttobre al 13 novembre 1944 infuria la Battaglia di Forlì, cui recentemente è stato dedicato un libro dettagliato: battaglia importante, cruenta e resa difficile per le proibitive condizioni ambientali. Pensiamo ai tanti morti degli opposti eserciti: da una parte i tedeschi della X Armata, 700 uomini sepolti fino a tutti gli Anni Cinquanta in un’ampia zona del Cimitero monumentale, dall’altra l’VIII Armata britannica, che ebbe ancora più caduti, con reparti del Regno Unito, indiani, nepalesi, neozelandesi, polacchi, canadesi e sudafricani, e di cui rimangono ben visibili i cimiteri britannico di Vecchiazzano e quello indiano, di fronte al monumentale di Forlì. Forlì è liberata il 9 novembre, poche ore dopo il crollo della Torre civica e del campanile del Duomo ad opera dei tedeschi in ritirata. Ma i bombardamenti tedeschi non cesseranno: quasi ogni giorno dall’aeroporto militare di Villafranca di Verona partono diretti in Romagna, e a volo radente per non essere intercettati dai radar, aerei germanici allo scopo di danneggiare luoghi di comando e strutture della VIII Armata, che ha fatto di Forlì una propria sede strategica.
E così sarà anche quel 10 dicembre 1944. Era domenica e si celebrava la festa dell’Immacolata Concezione, dedicata all’Azione cattolica, fiorente in parrocchia. Cinquecento le presenze alla funzione pomeridiana, nella quale don Garbin aveva mantenuto l’omelia in tempi più ridotti del solito per consentire altre attività. Alle 17 la funzione era appena terminata e la gente era quasi tutta uscita dalla chiesa. Alle 17.15 avviene la catastrofe. Una sola bomba diretta verso il deposito alleato situato in via Battuti Rossi, ex convento di Santa Chiara, a pochi metri di distanza da San Biagio, distrugge la vita di venti persone e annienta la chiesa quattrocentesca con i suoi tesori d’arte della cappella Feo con gli affreschi di Palmezzano su cartoni di Melozzo. Tra i morti diversi bambini, una suora clarissa del convento confinante, e don Agostino Desirello, amato confessore e catechista.
Quel giorno gli aerei tedeschi in volo su Forlì sono quattro: ognuno porta una sola bomba ad altissimo potenziale, con spoletta speciale atta a farla esplodere “orizzontalmente”, cioè prima dell’impatto col suolo. Due bombe non esplodono e cadono una tra via dei Mille e Maldenti, causando comunque vittime, e l’altra sulla Mangelli. Ma la bomba più devastante, insieme a quella su San Biagio, è quella che, questa volta centrando il suo obiettivo, distrugge in corso Diaz il Palazzo Merenda-Albicini, sede del Comando Alleato, e danneggia pesantemente Palazzo Prati e Palazzo dall’Aste-Brandolini, causando 67 morti, molti dei quali militari britannici. Occorre sempre ricordare come in quell’infausto 10 dicembre 1944 a Forlì avvenne una doppia strage. E il pensiero di chi anche oggi ricorda i morti di San Biagio non può non estendersi ai tanti
caduti nell’altra strage in corso Diaz: forlivesi, ma anche militari venuti da paesi lontani a liberare l’Italia e la nostra città.
Sulla distruzione di San Biagio sono state pubblicate molte testimonianze dirette nel libro: Un dì lontano per il Cinquantenario, e nell’opuscolo per il Settantesimo dalla distruzione. Secondo i presenti, in quel tragico frangente Don Garbin appariva sconvolto, incapace di decisione: ciò che aveva costruito pareva cancellato, distrutto. Ma fu solo un attimo: l’enormità del disordine vigente e la necessità di provvedere alle necessità primarie di tante persone umiliate e offese spingerà i cuori dei salesiani e dei loro collaboratori e collaboratrici a superare anche la tragedia del 10 dicembre.
Del resto i Salesiani non avevano aspettato la liberazione della città per iniziare un’opera di grande rilievo: la creazione di un Ospedale Don Bosco, atto a supplire le comprensibili carenze di quello pubblico, a favore di rifugiati, reduci e profughi. Il luogo era stato reso operativo a settembre insieme alle autorità municipali e prefettizie e alla Croce Rossa, nella sede dell’Opera Nazionale Balilla, in via dei Mille, non più funzionante in momenti di crisi statuale. Collaboravano con don Garbin, direttore dell’Ospedale, le suore salesiane che alla Pianta avevano visto distrutto il loro asilo, dottori e professori ben noti, ma l’ambiente umano era arricchito dai giovanissimi e dalle giovanissime di San Biagio. Con la Liberazione di Forlì don Leo Coppo, perfettamente bilingue, divenne utilissimo interprete del comando alleato. Dopo soli sei giorni dalla distruzione di San Biagio, il 16 dicembre 1944, giunge a Forlì dal Vaticano, monsignor Ferdinando Baldelli, presidente della Pontificia Commissione d’Assistenza, che porrà le basi per una distribuzione di pasti agli affamati. Parte così a Forlì una nuova impresa con alla testa don Garbin. Il 22 dicembre don Garbin con alcuni collaboratori è ricevuto in udienza da Pio XII, che – ben informato – gli si rivolge con parole di riconoscenza per tutto quello che ha fatto per la chiesa e per la città di Forlì. Su queste basi gli ex giovani che avevano vissuto un’esperienza eroica e irripetibile con don Garbin e i primi salesiani, vollero – trent’anni fa – ricordare alla città la sua figura di guida non solo spirituale, traslandone le spoglie nella nuova San Biagio e titolandogli la piazzetta antistante la parrocchia. Credo che la Chiesa e la Città di Forlì debbano mantenere vivo quel ricordo e quell’esempio.