Giovanni Tassani, amico di Roberto Ruffilli dai tempi dell’oratorio, racconta da una prospettiva inedita la trasformazione di un giovane timido e a volte fragile, in un politico che partecipa alle scelte importanti del Paese. La breve biografia è accompagnata da una serie di interessanti immagini raccolte nel volume Un dì lontano – Cinquant’anni di vita salesiana a Forlì.
Le immagini che si vedono in questo dossier provengono dal fondo fotografico dell’oratorio San Luigi e da amici che si riunirono all’inizio degli Anni Novanta per ricordare in un libro i cinquant’anni di presenza dei salesiani a Forlì, ove questi erano arrivati in piena guerra, nell’ottobre 1942. Roberto Ruffilli non poteva certo mancare in tante foto di gruppo, poiché abitava nella stessa strada del San Luigi, via Luigi Nanni.
Era nato nel 1937, figlio di un operaio tubista della Mangelli e di una casalinga, e cresciuto in una condizione economica modesta, anche se non proprio di povertà. Sua mamma e ancor più sua nonna Rosina erano assidue frequentatrici della parrocchia di San Biagio e ciò portò, da parte dei salesiani, un occhio d’attenzione al piccolo Roberto, che dimostrava intelligenza insieme a elementi di fragilità, come si direbbe oggi. Dallo sport, elemento socializzatore primario nel rude ambiente del dopoguerra, Roberto, sentendosi un po’ “schiappa”, si era subito ritratto, ed una certa timidezza gli aveva anche giocato a volte brutti scherzi, come quando non riuscì a memorizzare, in una processione del Venerdì Santo, il commento a una stazione della Via Crucis, facendo scena muta e poi scoppiando in un pianto dirotto. Dovrà subire per anni, per questa sua défaillance, ironie e battute. Una certa balbuzie infantile risulterà invece vinta per forza di volontà in età adulta.
Roberto certo non era queste sue fragilità: la sua forza erano la riflessione, la capacità di applicarsi allo studio, la visione positiva dei problemi da risolvere ed una buona, spesso contagiosa, dose di humor. I salesiani e le cooperatrici, che allora si chiamavano “dame patronesse”, lo aiutarono, e gli fecero scegliere il Liceo Classico. Il buon Roberto rimase fino ai quindici e più anni, senza alcun complesso, nel gruppo dei “chierichetti”, insieme al suo inseparabile amico Tonino Setola, quando altri come me vi entravano a otto anni, ma poi presto si dileguavano. Scuola precoce, quella, del latino, già da noi assimilato all’arrivo nelle scuole medie, avendo imparato il linguaggio e le complicate formule della liturgia, che era allora, in età preconciliare, in latino. Come gruppo di Forlì si concorreva ogni anno a Loreto in gare con gruppi di altre città, spesso vincendo, sempre eccellendo.
Finito il Liceo, ecco l’Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano, ove la segnalazione dei salesiani aprirà al giovane Ruffilli la possibilità di una borsa di studio, che gli consentirà l’ospitalità nel Collegio Augustinianum. Collegio che anni dopo dirigerà, per incarico del rettore Giuseppe Lazzati, che gli aveva affidato il compito di mantener aperto il dialogo con i più giovani studenti, influenzati dopo il ’68 dalla contestazione. La condizione del promettente studente forlivese in Scienze Politiche, diverrà però precaria quando gli morirà il padre, dovendo così egli integrare la borsa di studio con lezioni private. Ma qui inizia, con altre difficoltà, anche la carriera universitaria di Ruffilli, la sua maturità professionale e politica, i tanti libri e saggi che saranno dopo la sua morte riuniti nei tre volumi editi dal Mulino.
Il dossier fotografico si arresta qui agli anni Cinquanta, e vuole mostrare come l’oratorio San Luigi sia stato allora per anni e per tantissimi giovani forlivesi un’opportunità di vera socializzazione e crescita, come testimoniano le parole dello stesso Roberto Ruffilli in prefazione al libro sul San Luigi presentato lo stesso giorno in cui fu assassinato: Ci sono state offerte occasioni decisive per la formazione religiosa e la maturazione umana, ed abbiamo trovato un aiuto spesso determinante […] Di qui una profonda gratitudine per quanti, dai direttori agli amici, hanno reso così bella e proficua per noi la stagione dell’adolescenza e della giovinezza.
Quel giorno, poche ore prima dell’assassinio, ci confrontammo, dopo la presentazione del libro, su cose tra loro assai diverse: dalle condizioni di salute di mio padre (“vecchia guardia” – sua definizione – del San Luigi con don Pippo, e che l’aveva “iniziato” all’esperienza della San Vincenzo per i poveri) di cui volle sapere per aver con lui da poco convissuto come degente all’ospedale di Meldola, all’ascesa di Occhetto, data per prossima, alla segreteria del suo partito, ad allargare una prospettiva di collaborazione democratica. La delusione di non essere stato inserito nel nuovo governo appena varato era attenuata in lui dal porsi, come sempre, gioviale e sorridente, con una spontanea “signorilità” capace solo in chi viene dalla base della società ed è perciò naturalmente incapace di “tirarsela” e di frequentare il mondo effimero dei salotti e dei talk show. Quell’educazione giovanile, quella crescita in ambiente saldamente popolare, è rimasta quale stigma positivo nello studioso, apprezzato, di storia delle istituzioni, regista e mediatore nella Commissione Bozzi per le riforme istituzionali. Virtù dell’ understatement , del senso della misura – come nel suo modello politico: Aldo Moro – che va congiunta alla fermezza da mantenere nel cammino strategico per le riforme. Virtù del tutto opposta alla superficialità, imbarazzante e sbruffona, di molti, con cui oggi siamo indotti, se non costretti, a convivere.