L’energia elettrica, prodotto essenziale del nostro tempo, ha fatto gradatamente scomparire le tecnologie che per secoli hanno accompagnato la nostra civiltà. Una di queste è la conserva: la cella frigorifera che ha imprigionato il freddo e ha consentito la conservazione delle carni macellate, del pesce, degli alimenti deperibili fino al tempo dei nostri nonni. Era scavata nel terreno, impermeabilizzata, rivestita di mattoni, isolata con sabbia e ricoperta alla sommità di un consistente spessore di terreno su cui, soprattutto in campagna, erano piantati fitti alberi “da ombra”. La neve invernale veniva ammassata all’interno dove, accuratamente pressata, riusciva a mantenere i suoi effetti anche fino all’anno successivo. Se non nevicava si “importava” a carri dalle colline, e in caso di grande carenza si utilizzava persino il malsano ghiaccio dei fossi. A Forlì l’acqua del Canale di Ravaldino veniva fatta confluire nel fossato della Rocca dove il freddo completava l’opera. Poi, per ovviare al problema degli inverni miti, in età più moderna cominciarono a funzionare le fabbriche del ghiaccio.
Le conserve (chiamate anche ghiacciaie) appartenevano soprattutto a commercianti e possidenti, erano distribuite in tutta la città e quasi sempre erano riconosciute col nome del proprietario. La “nostra” era la Conserva dei Corbizi.
Quella dei Corbizzi (Corbizi, Corbici) era un’illustre famiglia di origine Toscana di cui un ramo era iscritto alla nobiltà forlivese. Corbizzo – racconta il Casadei – fu uno dei più ascoltati consiglieri di Caterina Sforza ed amico di Piero de’ Medici. Filippo, ultimo di sua famiglia, morì nella seconda metà del sec. XVIII. La vedova di Filippo, Eufemia Marchesi fondò nel 1797 una farmacia per la distribuzione gratuita dei medicinali ai poveri.
La conserva dei Corbizi è ricordata a Forlì da una piazzetta ubicata nel quartiere Schiavonia e San Biagio.